La questione della sopravvenuta disabilità e conseguente legittimità o meno del successivo licenziamento, già trattata nelle sentenze Cassazione civile sez. lav., 19/12/2019, n.34132 e Cassazione civile sez. lav., 28/10/2019, n.27502, torna nuovamente alla Cassazione.
Nella recentissima sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021, la Cassazione ha affermato che è illegittimo, da parte di un datore di lavoro, licenziare un lavoratore con sopravvenuta disabilità, se il datore di lavoro stesso non abbia dimostrato l’impossibilità di trovare una nuova collocazione, anche di livello inferiore, con conservazione del trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza, in quanto «obbligato preventivamente a verificaredi non potere adottare “accomodamenti ragionevoli” in una prospettiva di riorganizzazione del lavoro aziendale idonea alla salvaguardia del posto di lavoro».
Sussiste pertanto, per il datore di lavoro, un vero e proprio obbligo di previa verifica della possibilità di modifiche organizzative, al fine di consentire al lavoratore di proseguire la propria attività lavorativa; questi accorgimenti vanno adottati secondo il parametro – ma anche il limite – della “ragionevolezza”, in considerazione del “limite costituito dell’inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro”, e la comprensibile necessità di evitare “oneri organizzativi eccessivi”, che andranno valutati tenendo conto della situazione peculiare dell’azienda interessata.
Si ritorna pertanto al concetto di “accomodamento ragionevole”, riferendosi a quelle “modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art.2 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, del 13 dicembre 2006).
Un ulteriore richiamo è previsto all’art. 27 della stessa convenzione, tale per cui gli Stati Parti devono mettere in atto tutte le misure volte a garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro per tutti, tramite apposite ed appropriate iniziative (tra cui, sicuramente, le misure legislative), “in particolare al fine di garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro”.
Sono disposizioni importanti, volte a promuovere la partecipazione dei disabili “nella sfera civile, politica, economica, sociale e culturale, con pari opportunità” (lett. Y del Preambolo della Convenzione) e, chiaramente, come già asserito, anche nell’ambito del rapporto di lavoro (art. 27 Convenzione).
La mera ricerca pertanto di una posizione alternativa per il lavoratore con disabilità sopravvenuta, ove riveli l’impossibilità di ricollocare il disabile adibendolo a mansioni diverse ma comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce in realtà gli obblighi del datore di lavoro che intenda procedere con il licenziamento, perché il datore di lavoro dovrà ricercare, in qualsiasi caso, possibili “accomodamenti ragionevoli” che consentano al lavoratore di mantenere il posto di lavoro.
Scrive infatti la Corte, richiamando anche la Costituzione:
“Tale obbligo datoriale di repechage, anche in mansioni inferiori, del dipendente inidoneo alla mansione è stato poi generalizzato dall’art. 42 del d. lgs. n. 81 del 2008, ma già vigeva nel diritto vivente sulla scorta del principio stabilito dalla più volte richiamata sentenza n. 7755 del 1998 delle Sezioni unite di questa Corte.
Evidentemente l’impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo, perché, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, co. 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, dovrà comunque ricercare possibili “accomodamenti ragionevoli” che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in una ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio.”
Un eventuale licenziamento conseguente a sopravvenuta disabilità del lavoratore, e comminato in assenza o rifiuto di adozione di “accomodamenti ragionevoli” è pertanto discriminatorio ed illegittimo (in tal senso, oltre alle sentenze già citate, si è pronunciato anche il Tribunale di Firenze con sentenza 20 marzo 2020, n. 150).
L’unico vero limite – il cui onere probatorio è a carico del datore di lavoro – è costituito dall’organizzazione interna dell’impresa, ed in particolare dall’esigenza di mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa stessa, combinata con il diritto di mantenimento delle mansioni assegnante per gli altri lavoratori (e, in qualsiasi caso, di mansioni che siano professionalmente congrue ai lavoratori).
Spetta sempre al datore di lavoro, pertanto, provare i suddetti limiti ed anche l’inesistenza di posizioni lavorative disponibili e allo stesso tempo compatibili ed adeguate allo stato di salute residuale del lavoratore con sopravvenuta disabilità.
È chiaro che questo discorso di inserisce in un quadro più ampio, che, è anche complesso e ricco di sfumature. Si pone il problema infatti, di riconoscere le tante differenze che caratterizzano le varie e numerose forme di disabilità. È troppo facile fermarsi all’immaginario dell’individuo – maschio o femmina che sia – in carrozzina, o comunque con disabilità motorie. Ma, ricordiamo, la disabilità non è solo quella che si vede, non è lo stereotipo che offusca di fatto tutte le altre sfumature. Esistono tanti tipi di disabilità: motorie, cognitive, psico-sensoriali, cardio-respiratorie. Queste disabilità vanno valutate e possono anche cambiare a seconda dell’ambiente in cui vengono inserite, rendendo il “ragionevole accomodamento” una categoria astratta che deve necessariamente essere contestualizzata nell’organizzazione di impresa per potersi concretizzare.
“Accomodamento ragionevole” non può e non deve diventare “lessico giuridico”, parole prive di ulteriore senso compiuto. È lo stesso articolo 2 della Convenzione Onu che precisa il criterio con cui ipotizzare gli interventi di accomodamento, che in qualsiasi caso non devono mai determinare un onere sproporzionato o eccessivo, alla stregua di un “accanimento terapeutico” traslato in senso giuslavoristico, risultando potenzialmente futili o dannose per i lavoratori e per il contesto lavorativo.
Può costituire accomodamento ragionevole, ad esempio, tutte quelle misure messe in atto per permettere ai non-vedenti, nel caso di mansioni da svolgersi interamente online, la lettura del sito web o della pagina, in modo da permettere lo svolgimento autonomo della mansione. Altro esempio classico è la disposizione dell’ufficio o l’integrazione di rampe ed altri elementi necessari a rendere il luogo di lavoro accessibile ad una persona su sedia a rotelle.
In tal senso, è necessario considerare anche la prospettiva opposta: non mettere in atto alcun adattamento ragionevole in presenza di lavoratori disabili – che sia disabilità sopravvenuta o meno – potrebbe costituire discriminazione indiretta, e pertanto esporre l’azienda a rischi legali anche in assenza di licenziamento.
Ma anche le disabilità più nascoste e difficili da individuare richiedono adattamenti ragionevoli commisurati; la depressione, ad esempio, è una malattia invalidante cui è riconosciuta pari dignità rispetto ad altre infermità in quanto anche le patologie psichiche particolarmente gravi possono rappresentare un handicap che poi sfocia nella riduzione della capacità lavorativa e nella necessità di ausilio per lo svolgimento delle mansioni ed attività quotidiane. È lo stato ansioso-depressivo, fortemente traumatico, che crea infatti una riduzione della capacità lavorativa. In questo senso, può rappresentare accomodamento ragionevole il trasferimento – con l’accordo del lavoratore e con il mantenimento della stessa retribuzione e inquadramento – ad un ruolo meno stressante, oppure l’implementazione dello smart-working in quanto è plausibile che il lavoratore sia più tranquillo nella propria abitazione (ma chiaramente questo va valutato caso per caso).
Proprio lo smart-working ci potrebbe venire in soccorso in svariati altri casi. È presumibile infatti che il lavoratore disabile abbia, presso la propria abituazione, attuato tutta una serie di modifiche ed accorgimenti che gli permettano di vivere al meglio la propria quotidianità.
La definizione di smart-working, ovvero lavoro agile, si trova nella legge 81/2017, art. 18 comma 1; lo smart-working è definito come: “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.”
In questo periodo abbiamo assistito ad una generale “liberalizzazione” dello smart-working, in quanto molte delle limitazioni ad essa legate sono cadute a causa della situazione pandemica globale. Questo ha creato una diffusione molto ampia del lavoro agile, precedentemente visto con sospetto da molti datori di lavoro, che invece ne hanno iniziato ad apprezzare i lati positivi. Lo smart-working è infatti da considerarsi uno strumento fondamentale al fine di giungere ad un’organizzazione del lavoro nuova e diversa, al passo con i tempi e con le esigenze sia delle imprese che dei lavoratori; è un processo che pone il lavoratore al centro del processo lavorativo e della produttività aziendale, garantendo però la protezione degli interessi di tutte le parti coinvolte in un’ottica di estrema flessibilità. Ciò che è importante è l’obiettivo pianificato da raggiungere, non il luogo della realizzazione della prestazione.
Fatta questa debita premessa, è chiaro che lo smart-working può rappresentare un valido strumento per inserire – o reinserire – il lavoratore con disabilità nel contesto lavorativo, costituendo pertanto un “accomodamento ragionevole” che permette al lavoratore di lavorare con la massima tranquillità e con gli ausili tecnici di cui ha bisogno. In tal senso, lo smart-working rappresenta una delle possibili modifiche adottabili, sicuramente in senso innovativo e più ampio rispetto alla tradizionale interpretazione del concetto, spesso ridotta ad una mera ottemperanza legislativa, che di fatto si riduce all’implementazione delle modificazioni limitatamente al singolo luogo di lavoro ed eventualmente alla ricerca di una prestazione che possa comunque esplicarsi “in loco”, non considerando che l’ottimizzazione dell’organizzazione aziendale potrebbe passare per vie più semplici.
Chiudiamo con una considerazione di carattere comparatistico, interessante da notare come “curiosità” di carattere comparatistico, ma anche come sguardo potenziale sul futuro.
Gli Stati Uniti riconoscono come disabilità, in presenza di determinati specifici requisiti, alcune malattie o afflizioni che sicuramente non sono considerate tali in Italia. Pensiamo, ad esempio, all’alcolismo: secondo l’Americans with Disabilities Act (ADA), le persone che abusano di alcol possono essere considerate disabili se la persona è un alcolista o un alcolista in recupero. Diversi stati americani, inoltre, considerano l’alcolismo anche come una malattia. Il California Fair Employment and Housing Act (FEHA) è un esempio di legge che qualifica l’alcolismo come una disabilità. Il FEHA, invero, adotta una definizione di disabilità davvero ampia, includendo praticamente tutte le menomazioni che limitano la capacità di lavorare. L’ADA ha invece uno standard più alto, richiedendo che una disabilità limiti sostanzialmente la capacità lavorativa di un individuo. In questo senso appunto, l’alcolismo, considerato una disabilità, crea il diritto, per il lavoratore, a pretendere l’implementazione di accomodamenti ragionevoli specifici. Ad esempio, può rappresentare un accomodamento ragionevole la modifica di un orario di lavoro in modo da permettere al dipendente di partecipare agli incontri degli Alcolisti Anonimi, oppure un congedo concesso per la partecipazione ad un trattamento medico o di recovery, a condizione che non vi sia un disagio irragionevole per il datore di lavoro. Per esempio, la depressione, una disabilità comune che accompagna l’alcolismo, può rendere necessario il trasferimento del dipendente a una posizione meno stressante (in conformità con diponibilità e qualifica).
Autore: Avv. Martina Federica Manfredi